Dante, perché? Forse, provocatoriamente, per uscire dalla bancarotta spirituale che ci travolge.
Thomas Merton nel 1968 la descriveva così: «Il collasso di quel vago umanesimo materialista che era stato moneta corrente negli scorsi due o tre secoli ha lasciato il mondo tragicamente consapevole della propria bancarotta spirituale. Generazioni su generazioni di uomini hanno a tal punto perduto il senso di una vita interiore, si sono talmente isolati dalle loro profondità spirituali per un’esteriorizzazione che è sfociata alla fine in assoluta superficialità, che ora noi siamo quasi incapaci di godere di una qualsivoglia pace, quiete, stabilità interiore. Gli uomini sono arrivati a vivere esclusivamente sulla superficie del loro essere, al punto che la vita è diventata una mera ricerca di piaceri rudimentali e una fuga dal dolore fisico e mentale» («Il primato della contemplazione», EMI 2018).
Dante, invece, sembra rappresentare altro. Non solo per la sua fede cristiana granitica, ma anche per lo spessore umano che lo caratterizza e che tutti (via: quasi tutti) sono in grado di riconoscere di primo acchito. Esule, solo, arrabbiato col destino, deluso e tradito nelle sue convinzioni politiche, scandalizzato da una Chiesa simoniaca. Ebbene, Dante è uno che non perde mai la speranza: questa è la ragione ultima e vera del suo «successo», come uomo prima ancora che come poeta. Ci si prepara al «giorno di Dante», che proprio non si potrà chiamare Dante-day (o peggio Dante’s day: un vero peccato per gli anglofili di provincia). E che sarà il 25 marzo, quando inizia il suo viaggio dalla selva oscura fino all’Empireo (anche se la data più probabile, calendario alla mano, sembra collocarlo tra l’8 e il 14 aprile del 1300). Il 25 marzo era anche il giorno di Capodanno a Firenze; ed è, soprattutto, la festa dell’Annunciazione del Signore, a nove mesi esatti dal Natale. Come per ogni cosa dantesca, i significati si sommano e si sovrappongono, e ciascuno di essi serve a spiegare gli altri, o a nascondere la spiegazione a chi non è in grado di comprenderla.
Così anche la scelta di una data celebrativa aiuta a ricordare che l’intero poema potrebbe essere stato concepito e scritto come lode e inno di devozione alla Vergine Maria, protagonista di quel cammino che per Dante è riscatto e salvezza. È lei la «donna gentil nel ciel che si compiange» (Inferno II, 94) per lo smarrimento di Dante; è lei, la Madonna, a mandare Beatrice da Virgilio per combinare i dettagli del viaggio. È lei ad aver intuito che non c’era altro modo, per Dante, di salvarsi, di «ritrovarsi». Il poeta lo spiega poi nell’ultimo Canto, in quell’inno che non ha paragoni di bellezza: «la tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fiate / liberamente al dimandar precorre» (Paradiso XXXIII, 16-18). Il giorno di Dante prepara l’anno di Dante: un insieme di iniziative con tanto di Comitato nazionale e comitati locali per celebrare i 700 anni dalla morte del poeta.
Le scuole di ogni ordine e grado sono già mobilitate con apposita circolare, e sarà sicuramente interessante raccontare l’Italia attraverso gli approcci dei ragazzi alla «Commedia». A capo di tutto c’è un torinese, il professor Carlo Ossola, che a Dante ha dedicato quasi tutta la vita, insieme con un gruppo importante di altri docenti torinesi ora scomparsi: i fratelli Angelo e Stefano Jacomuzzi, Giorgio Barberi Squarotti, Giovanni Ramella… L’amore per Dante, l’interesse per la «Commedia» è stato suscitato da questi maestri al D’Azeglio come a Palazzo Nuovo. Ed è stata scuola anche di vita (e non certo di bancarotta spirituale…). Una delle prime cose che si imparano studiando Dante è la forza esplosiva delle parole, la capacità di cavare da un aggettivo tutto il male o il bene, il chiaro e lo scuro che esso può dare. Per un solo esempio si potrebbero utilmente rileggere i versi con cui si è introdotti al terzo cerchio, dove c’è «la piova / etterna, maladetta, fredda e greve; / regola e qualità mai non l’è nova. / Grandine grossa, acqua tinta e neve / per l’aere tenebroso si riversa; / pute la terra che questo riceve» (Inferno VI, 7-12). Tiziano Scarpa sottolinea la quantità di «sillabe ostili» con cui Dante connota il panorama. Suoni duri, cattivi: tt, rn, fr, dd… È così che veniamo introdotti a nostra insaputa nell’ostilità di un ambiente.
Questa forza attraversa l’intera «Commedia», come si sa; ed è anche quella che sostiene la vita di Dante, costretto a vendere la propria diplomazia a servizio di terzi quando lui avrebbe fatto così volentieri l’assessore a Firenze. Proprio il «mestiere dell’esilio», per altro, gli consente di maturare una conoscenza dell’Italia utile tanto per il lavoro poetico quanto per la sua visione politica: quella della rinnovata conciliazione fra Chiesa e Impero, e del rinnovamento profondo della cristianità, che ha un bisogno assoluto di tornare al Vangelo, alla coerenza tra fede e vita che non è frutto soltanto di scelte individuali ma rappresenta un vero cammino comunitario. Cacciaguida inveisce contro i costumi corrotti di Firenze: pochi decenni dopo Boccaccio e le sue novelle dimostreranno che invece quell’approccio borghese, laico, scanzonato era divenuto la realtà della città. E Dante lo sapeva bene: tanto che, al centro del Paradiso, nel Cielo del Sole, non mette qualche predicatore, ma san Francesco e san Domenico, che sono stati capaci, con i frati accorsi nei loro Ordini, di suscitare un movimento spirituale che ha obbligato la Chiesa di Roma a ripensarsi. Per evitare, appunto, la bancarotta…
Lungo questi primi sette secoli Dante è stato stiracchiato da ogni parte e in ogni modo. Oggi è anche, e felicemente, una icona pop, protagonista di performance e flash mob, evocato in canzoni, teatri, cinema. Ci hanno fatto dei manga e fumetti a dozzine. Uno scrittore fiorentino (Giulio Leoni) ha inaugurato con successo una serie di gialli che lo vedono protogeni sta, nifi lato in situazioni mistiche o misteriche. A un anno di distanza è difficile prevedere che cosa l’industria culturale riuscirà a inventare per «vendere» degnamente il centenario celebrativo. Il fatto è che Dante, anche oggi e nonostante tutto, è popolare. Perché i suoi versi, una volta ascoltati, si infiggono nel cervello o nel cuore, neanche fossero i raggi laser sparati da qualche pistola ultraterrena.
Lo ha dimostrato Roberto Benigni, andando a proporre in piazza e in tv quelle letture che erano spettacolo perché, giustamente, la «Commedia » è teatro, rappresentazione, e finzione. E illusione… Prima di Benigni lo fece Sermonti; e la Rai dedicò serie straordinarie di letture dantesche affi – dandole a commentatori come Petracci e ad attori come Gassman o Albertazzi, per non citarne che due. E come dimenticare il più grande di tutti, Carmelo Bene, che nel primo anniversario della strage di Bologna salì sulla torre degli Asinelli per raccontare, come fosse la preghiera di un suicida, il folle volo di Ulisse? https://www.youtube.com/watch?v=dty8Ka_U-cg.
Indietro nel tempo questi segni si ritrovano. Dal 1950 Disney pubblica e ripubblica l’«Inferno di Topolino», una parodia magnifica con Pippo nel ruolo di Virgilio e Topolino in quello di Dante. È lì che si comincia ad imparare a memoria qualche verso… Ci fu anche, tra le due guerre, un poster grandioso: vestito di rosso, con un nasone autorevolissimo, il poeta indica senza equivoci un marchingegno nero e lucido, sopra la scritta «Prima Fabbrica Italiana Macchine per Scrivere. Ing. C. Olivetti e C. Ivrea».
Il Risorgimento fece di Dante un eroe «nazionale », insegna del riscatto italiano. E si potrebbe continuare a lungo: la «Commedia » fu popolare da subito, tanto che Firenze istituì un incarico di «lettura di Dante ». Il primo a ricoprirlo fu Giovanni Boccaccio. Insomma oggi si potrebbe dire, malamente, che Dante è nel nostro Dna. E un po’ meglio si farebbe a rileggere davvero qualcosa della «Commedia», per capire come e dove, da «seimila miglia di lontano» (Paradiso XXX, 1), Dante continua ad essere per noi non importante, ma essenziale.
Marco Bonatti