Pochi anniversari sono sentiti e celebrati in Italia come questo di Dante che inizia il 25 marzo – solennità dell’Annunciazione del Signore e (presunto) inizio del viaggio da Gerusalemme all’Empireo. L’intero mondo dei mass media sembra essersi mobilitato, incontrando interesse e attenzione anche tra la gente comune. Il «Dantedì» potrebbe diventare un giorno di speranza per il nostro popolo, assediato dal Covid ma afflitto anche da questioni di identità e di «futuro».
L’Italia che Dante aveva in mente non è certamente quella che riscoprirono a forza i romantici e i risorgimentali ottocenteschi: né mazziniana né garibaldina (ammesso che Garibaldi avesse idee precise su questo). Forse potrebbe somigliare maggiormente ai progetti immaginati da Gioberti o da Carlo Cattaneo; ma siamo sempre nel campo delle congetture. Dante è un partigiano; la sua idea «teologica» della politica lo tiene lontano da ogni mercanteggiamento che si voglia contrabbandare per mediazione. Un partigiano sconfitto: più volte, sul piano militare come su quello politico ed ecclesiale. Ma un partigiano come lo furono, nell’ultima guerra, quelli dei partiti del CLN: diversissimi e uniti nell’intenzione di ricostruire l’Italia; portatori, ciascuno, di un patrimonio di valori e ideologie, e non soltanto da interessi immediati e dalla ricerca di consensi facili; uniti «per dignità e non per odio / decisi a riscattare / la vergogna e il terrore del mondo», come scrisse Piero Calamandrei.
Anche il «progetto» di Dante non ha bisogno di consenso immediato – dell’applauso sui social… Anzi: presenta all’avo Cacciaguida i suoi timori per un lavoro – la Commedia – che «a molti fia sapor di forte agrume»; e dunque teme di «perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico» (Paradiso XVII, 120). Ma la risposta di Cacciaguida è scontata: «la tua voce – gli dice l’antenato – sarà molesta al primo assaggio», ma risulterà «nutrimento vitale» una volta accolta e «digerita».
In un punto soprattutto l’Italia che Dante aveva sotto gli occhi era profondamente diversa dalla nostra: 700 anni fa la Penisola guidava lo sviluppo dell’Europa intera. Firenze e Venezia, Milano e Napoli e Genova erano le «capitali» di un progresso mercantile e finanziario senza precedenti, e che aveva pochi competitori nella stessa Europa: Parigi e le Fiandre, la Borgogna… A Bologna avevano inventato l’Università come spazio di ricerca e di dibattito libero dai condizionamenti troppo stretti della dottrina ecclesiastica e da quelli, altrettanto stringenti, del potere mercantile.
Il lavoro «politico» di Dante nell’Italia dei suoi tempi non è tanto quello del combattente per la causa dell’Impero e la sua teoria dei due poteri. Piuttosto egli vede, sottolinea e denuncia il rischio sempre più alto che le grandi opportunità di guadagno stravolgano il quadro di valori su cui il mondo – il suo mondo – deve reggersi. I veri «nemici» di Dante non sono Bonifacio VIII e Filippo il Bello, ma la simonia che essi interpretano e rappresentano. La Commedia è racconto di viaggio, cronaca di un’esperienza spirituale personale; è «summa» dell’intera cultura classica e medievale. Ma se c’è un tema politico che la percorre per intero esso va ricercato non tanto nel dramma individuale dell’esule fiorentino quanto nella costante, appassionata denuncia della cupidigia, della fame d’oro che colpisce tanto i reggitori degli Stati come il Papato e il vertice della Chiesa.
I peccati di «superbia, invidia e avarizia» di Ciacco, all’inizio dell’Inferno, sono gli stessi che fanno infuriare san Pietro al culmine del Paradiso… Le durissime parole dell’antenato Cacciaguida non sono un patetico e nostalgico guardare indietro ai bei tempi andati. Rappresentano piuttosto l’ennesimo (l’ultimo) tentativo di affermare una visione del mondo che non sia dominata dalla fame di denaro, con tutte le conseguenze che essa comporta. Perché la cupidigia obbliga all’ingiustizia: «ché la vostra avarizia il mondo attrista, / calcando i buoni e sollevando i pravi» (Inferno XIX, 104-105). Se è così, diventa inutile spendere troppe altre parole circa l’attualità bruciante di Dante e dei suoi moniti, in un mondo in cui i Paesi ricchi difendono la «proprietà intellettuale» dei brevetti sui vaccini, spingendo così i popoli più poveri nelle mani di altri sponsor… O forse dovremmo ancora ricordare che, nell’anno del Covid, è Gafam ad aver realizzato profitti e capitalizzazioni di Borsa pazzeschi? Gafam, i nuovi mercanti fiorentini: Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft.
I professori di liceo erano abituati a chiamare Dante «padre», per la gloria della lingua e non solo. Ma ci sono altri aspetti di questa paternità che, 700 anni dopo, possiamo ancora riscoprire: l’anno giubilare dantesco dovrebbe servire anche a questo.
Marco Bonatti su La Voce e Il Tempo del 21 marzo 2021